Chernobyl – La miniserie che ha squarciato il velo di Silvia Azzaroli
Chernobyl è una miniserie statunitense e britannica, creata e scritta da Craig Mazin e diretta da Johan Renck, prodotta da HBO e Sky Atlantic, vede protagonisti Jared Harris, Emily Watson, Stellan Skarsgård, Jessie Buckley.
La vicenda, tristemente nota, dell’esplosione alla centrale di Chernobyl nel 1986, è qui raccontata con dovizia di particolari, con poche differenze tra vita reale e fiction, cruda ma mai voyeuristica o telenoveleggiante, è sicuramente diventato un pezzo storico della tv, non solo americana.
Tutto parte con il racconto di Legasov (un immenso Jared Harris), lo scienziato chiamato a far parte della commissione per contenere il disastro, che dopo aver svelato tutte le coperture e le falsità nascoste dal governo sovietico, usando delle audiocassette, si suicida, per rendere pubbliche quegli audio e perché roso dai rimorsi per non aver fatto abbastanza, pur avendo messo a repentaglio la sua vita in questa immane tragedia.
Una delle cose che mi ha colpito del discorso che fa Legasov è il suo appello alla verità, il fatto di non doversi accontentare mai di verità precostituite ma di cercarla sempre perché altrimenti si finisce per diventare assuefatti alle falsità.
Tutto questo non può non far pensare al dilagare delle fake news, tramite l’uso di internet e dei vari social network. Questa vicenda ci dimostra come esse siano sempre state fomentate dai potenti per insabbiare la verità e conservare il proprio potere.
Tuttavia proviamo a fare un passo indietro e cercare di raccontare perché questa serie sia così importante.
Come dicevo i fatti sono estremamente noti. Quello che in pochi sanno, tranne la stampa specializzata dell’epoca, è che fu solo ed esclusivamente grazie al coraggio di Legasov e agli scienziati, che andarono fino in fondo nelle loro indagini, è che l’esplosione fu causata soprattutto da un errore tecnico, che avrebbe potuto essere riparato in tempo, se i servizi segreti non avessero coperto tutto.
Il 26 aprile 1986, all’una e 23 minuti e 45 secondi, vi fu l’esplosione, causata sia dal suddetto errore sia dalla, come possiamo definirla, sete di potere e avidità di Dyatlov, vicedirettore della centrale, che fa un test, ignorando sistematicamente sia il protocollo, sia le regole di buon senso, sia gli avvertimenti del supervisore Akimov e del giovanissimo ingegnere Toptunov, che vengono persino minacciati di essere licenziati se non avessero eseguito le manovre folli che il loro superiore aveva in mente.
Legasov, sulle responsabilità di Dyatlov, fu molto chiaro, come per il resto: “Ci furono uomini più colpevoli di lui, molto più colpevoli di lui, venne usato come capro espiatorio. Tuttavia cosa sono 10 anni? Per cattiva gestione su imprese potenzialmente pericolose. Cosa significa? Per me meritava la pena di morte, come tutti i responsabili.”
Akimov e Toptunov (Sam Troughton e Robert Emms, anche loro veramente toccanti e in parte) furono le prime vittime di un gesto sconsiderato, probabilmente mirato per fare carriera all’interno della gerarchia sovietica, sia per Dyatlov sia per i suoi diretti superiori (ancora più criminali di lui) Viktor Bryukhanov, il direttore della centrale e Nikolai Fomin, il capo-ingegnere della stessa, troppo impegnati a fare carriera e a cercare di insabbiare il tutto, minimizzando ogni pericolo e schernendo ogni dato scientifico. E pure qui, ahimé, tutto questo è molto attuale.
Per onestà, tuttavia, è bene ricordare quanto detto sopra. L’esplosione fu causata per un errore tecnico, sul tasto di emergenza AZ-5, che, invece di abbassare di botto la temperatura, la alzava per pochi fatali secondi.
Errore tecnico conosciuto da tempo dal KGB e insabbiato per evitare di perdere la faccia a livello mondiale, in quanto l’Unione Sovietica non voleva perdere il suo predominio sul nucleare.
In mezzo a tutto questo schifo umano, questa storia, per fortuna, ci insegna anche qualcosa di positivo.
Prima di tutto gli eroici pompieri, qui simboleggiati dal povero Vasily Ignatenko (Adam Nagaitis, bravissimo a fare l’eroe comune che strazia il cuore), che, uscito di casa per quella che crede essere una normale emergenza, morirà in maniera atroce, con il volto scarnificato, facendosi di tutto addosso e con il solo appoggio di sua moglie, Lyudmilla Ignatenko (Jessie Buckley, meravigliosa), che si batte come una leonessa per stargli vicino fino alla fine, ignara di stare prendendo anche lei radiazioni letali che uccideranno, dopo poche ore dalla nascita, la bimba che portava in grembo.
Straziante e raggelante la scena in cui tutti i pompieri vengono sepolti in bare di zinco, sotto il cemento armato, per evitare che le radiazioni si propaghino.
Altri eroi comuni sono i minatori, capeggiati da Glukhov (Alex Ferns, toccante e nel contempo esilarante), un uomo pratico, gran lavoratore, molto intelligente, non accetta di far portare la sua squadra senza sapere nulla, nemmeno sotto minaccia, così costringe i soldati a raccontare la verità su quanto è successo e su cosa dovranno fare loro minatori per salvare tutti.
Costretti a lavorare in condizioni bestiali, 50 gradi, e dopo aver chiesto invano dei ventilatori, il gruppo si spoglia completamente, sconvolgendo Legasov e Boris Shcherbina, vice presidente del consiglio dei ministri (interpretato da Stellan Skarsgård, anche lui sontuoso), che restano esterrefatti a vederli lavorare nudi e vederli rifiutare persino protezioni, che, hanno capito, non serviranno a nulla.
Ulana Khomyuk, a cui ha prestato il volto una meravigliosa Emily Watson, è un personaggio fittizio con hanno voluto omaggiare i tanti fisici e ingegneri che collaborarono con Legasov nei mesi successivi all’incidente.
Tra le tragedie di quel periodo vi è il fatto che la zona venne letteralmente uccisa, ogni vita, compresa quella animale, venne abbattuta. Tutto questo ci viene raccontato attraverso gli occhi di Pavel, interpretato da un bravo Barry Keoghan, che trovandosi per la prima volta a dover sparare, è smarrito e fragile in un contesto più grande di lui. Ad aiutarlo Bacho, interpretato da Fares Fares, un soldato georgiano e veterano della guerra in Afghanistan, che lo addestra, spiegandogli come a tutti sia capitato di sentirsi diversi dove certi atti.
Infine non si può non citare Michail Gorbačëv (David Dencik, assai credibile nel ruolo), il celebre statista, qui dipinto in maniera umana, tra la voglia di sapere la verità e il polso duro dell’uomo di potere, costretto a fare scelte dure.
Miniserie dura e credibile, capace di porre diversi interrogativi etici e morali.
La scienza fin dove può spingersi e perché? Legasov e Uluna sono il simbolo della scienza etica, di come sia importante cercare di rispettare ogni vita umana, di non usare le persone come oggetti e far progredire la scienza insieme alla civiltà umana. Legasov rischia il tutto per tutto, anche la vita, pur di salvare tutti, perché quel fatale errore tecnico era presente in diverse altre centrali nucleari e, senza le sue importanti rivelazioni al mondo intero, la verità sarebbe stata insabbiata. Legasov e Uluna fanno pensare a quello che Sam e Frodo si dicono ne Il Signore degli Anelli, quando si dice che certi eroi, potevano tornare indietro ma non lo hanno fatto. Legasov, gli altri scienziati, i minatori, i pompieri, gli operai sapevano cosa rischiavano a stare lì ma sono rimasti per il bene di tutti.
Non posso negare di aver pensato anche tre serie diverse tra loro, a cui comunque accomuna l’idea di messaggi etici.
In Chernobyl, come accadeva in Fringe, vi era la questione di scienza etica (quante poche persone hanno compreso che quando Peter Bishop creò il ponte, in Fringe, lo fece rispettando la natura) e scienza priva di scrupoli ( Walter Bishop, Bell, Jones ecc all’opposto non rispettarono affatto la natura), di persone disposte a calpestare chiunque e altre pronte a sacrificarsi, dopo un percorso duro, doloroso e umanissimo, di come non si deve mai dividere il mondo in buoni e cattivi e che la verità, come le responsabilità, hanno più livelli.
E se Dyatlov era colpevole, non si debbono e si possono negare le responsabilità di chi era più in alto di lui.
In Chernobyl, come in Doctor Who, si parla di come il vero progresso arriverà solo e soltanto quando si capirà il valore di ogni singola vita ( vedere il discorso di Capaldi/Doctor durante l’episodio sulla fiera del ghiaccio). E di come la stupidità umana, con in mano una grande tecnologia, possa fare dei danni enormi.
In Chernobyl, come in The Newsroom, si parla del valore supremo della verità e di come purtroppo non sempre paghi raccontarla, anzi, a volte si può morire, eppure la si deve dire, perché se no ci si accontenta di mezze bugie e mezze verità e tutto diventa falso e vuoto.
La miniserie Chernobyl ci ha mostrato l’orrore umano, ci ha mostrato le morti più atroci senza mai indugiare, con una sorta di pietas necessaria in tempi di esagerazioni e ostentazioni, ci ha mostrato che è in momenti come questi che può uscire il meglio di ognuno di noi.
Niente potrà mai ridare la vita perduta ai quei poveri eroi, alcuni morti in maniera veramente dolorosa e terribile. Niente potrà più essere come prima e deve esserlo.
Il lieto fine in questa storia non c’è, come ricordava ironicamente Legasov a Gorbačëv, ci vorranno 24 mila anni per far sì che le radiazioni spariscano da quei luoghi, molto dopo la loro e la nostra morte.
Nel frattempo in quelle zone interdette all’umanità, stanno rinascendo alberi e animali, segno che la natura è più forte di tutto e che, perdonatemi se cito Doctor Who: “la vita trionfa sempre.”
Ecco io voglio continuare a sperare perché se sono esistite persone come Legasov, allora la nostra umanità non è andata perduta.
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Chernobyl – Le piccole cose che tengono a bada l’oscurità – di Chiara Liberti
In tante recensioni che stanno spuntando come funghi in questi giorni, l’incipit è più o meno sempre lo stesso: Chernobyl è la celebre storia del disastro nucleare avvenuto nel 1986. Nì, mi viene da precisare. Perché se è vero che la miniserie ha questo come argomento, è altrettanto vero che ciò che emerge dal racconto sono le molteplici storie di uomini e donne toccati dal tragico evento. E questo è uno dei punti di forza, dal momento che ci sono più e più istanti in cui non ti sembra di essere spettatore, ma hai la sensazione – orribile, nauseante – di trovarti esattamente là, a fianco del reattore esploso, come le radiazioni che ti travolgono in modo silenzioso e letale. Non so voi, ma durante quasi tutte le puntate a episodio terminato si aveva quasi l’impressione di essere radioattivi noi stessi, come se quello che si vedeva sullo schermo non fosse solo un avvenimento passato, ma davanti a noi, in quell’esatto istante. Ed è anche per questo che non si rimane indifferenti davanti all’atroce spensieratezza di quegli adulti e bambini che giocano sul ponte, osservando l’incendio, mentre tutt’attorno a loro precipitano ceneri radioattive che li condanneranno a morte entro pochi anni. Non si rimane indifferenti al ronzio dello strumento per la misurazione della radioattività, che man mano cresce d’intensità fino a diventare qualcosa che ti mette a soqquadro lo stomaco.
La storia, gli interpreti e le riflessioni principali, vi sono già state recensite con sapienza qui sopra.
Ciò su cui vorrei porre l’accento è la differenza di comportamenti tenuti dinanzi a quegli avvenimenti catastrofici.
Da un lato abbiamo gli uomini: Legasov su tutti, Ulana – la summa della scienza, degli scienziati e collaboratori di Legasov – Boris Shcherbina, i tre volontari che si calarono nei sotterranei per far defluire l’acqua da sotto la centrale, i minatori, le migliaia di volontari che sul tetto andarono a spalare la grafite… Non eroi, non incuranti del pericolo, non coraggiosi a tutti i costi, bensì gente comune, conscia della propria piccolezza, ma al tempo stesso conscia di poter e dover fare qualcosa per impedire una catastrofe planetaria.
Nel film “Lo Hobbit”, Gandalf dice una frase troppo spesso sottovalutata: “sono le piccole cose, le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità.”
Dall’altro abbiamo gli ominicchi, per continuare con le citazioni cinematografiche. Chi non badò alla sicurezza pur di fare un test visto solo come un gradino per l’avanzamento di carriera. Chi nascose, di proposito, la pericolosità delle punte di grafite delle barre di contenimento, le quali – anziché essere una garanzia di salvezza – diventeranno la scintilla finale per l’esplosione disastrosa.
Alla fine di questi racconti non si può non chiedersi: quale valore diamo alla vita umana, se la si considera quasi un ostacolo per l’onore dei singoli? Davvero nella nostra ipotetica bilancia il profitto pesa di più della sicurezza, delle altrui esistenze?
Le risposte, oggi come ieri, purtroppo sono sempre le stesse.
Certo, a livello di impatto ambientale non c’è il paragone con Chernobyl, ma il dolore delle vite spezzate non ha indice di misurabilità: la casa dello studente a L’Aquila, costruita con la sabbia per risparmiare sui materiali, quei binari a tratta unica in cui l’errore – umano o di un computer – è sinonimo di vite interrotte… la cronaca solo nostrana può purtroppo vantare una lista lunga di episodi in cui le altrui esistenze sono state giudicate un nulla a favore di soldi e prestigio.
Quando capiremo che “il progresso umano non si basa sull’industria, ma sul valore che diamo alle vite umane” (Doctor Who, Thin Ice) forse potremo iniziare a risalire la china.